Con gran suono di pifferi e tamburi, sventolio di bandiere e lancio di mortaretti, è stata accolta la pubblicazione della Sentenza di Cass. II sez. civile n. 18740 del 09 luglio 2025, da parte di alcuni ambienti usi ad occuparsi, di proposito o di sproposito, di materie afferenti al diritto nobiliare.
Consigliamo ai suonatori , alcuni di tono gradevole, altri decisamente stonati, di cessare lo strepito, ma soprattutto di smettere di far dire alla Corte di Cassazione quello che non ha detto, specie in ordine ai cosiddetti lodi arbitrali in tema di riconoscimento dei titoli nobiliari. Vediamo perchè.
La contestazione fatta al Notaio ricorrente era (ed è) quella di “aver ricevuto in deposito mediante atto pubblico dei pareri pro veritate recanti il riconoscimento di titoli nobiliari allo scopo dell’uso legale del titolo stesso e della sua trasmissibilità agli eredi in violazione all’art. 28 legge notarile…”, rilasciando apposita certificazione attestante appunto “il diritto all’uso legale per sé ed i suoi all’infinito…” del titolo nobiliare , in contrasto con quanto disposto dall’art. XIV disp. trans. della Costituzione
A fronte di ciò la Cassazione conferma la correttezza di quanto già deciso dalla Corte d’Appello in sede di reclamo da parte del Notaio contro il provvedimento disciplinare comminatogli, e cioè che la Costituzione repubblicana alla XIV disp.trans. , al primo comma dispone il non riconoscimento dei titoli nobiliari come “rifiuto radicale ed originario” degli stessi , ma non una loro “abolitio”, e quindi il fatto che gli stessi non possano essere fatti oggetto di tutela giuridica nell’ordinamento dello Stato, circostanza questa dimostrata anche dal fatto che il secondo comma di detta disposizione attribuisce invece rilievo al predicato, e quindi dimostra che “oggetto immediato di protezione non è il titolo ma il nome [del quale il predicato fa parte] di cui nessuno può essere orbato” . Insomma , i titoli (non aboliti) sono fuori dell’ordinamento giuridico, il predicato ( a certe condizioni) è dentro l’ordinamento e può essere fatto oggetto di riconoscimento e di tutela tramite
la “cognomizzazione” in quanto “parte “ del cognome.
Pertanto, come già affermato dal Giudice di appello, nella contestazione disciplinare il fatto
materiale contestato è “la certificazione rilasciata avente ad oggetto “il diritto all’uso legale per sé ed i suoi discendenti all’infinito..” del titolo nobiliare”, visto che “non si può attribuire valore giuridico a qualcosa che non lo ha e , pacificamente i titoli nobiliari nel nostro ordinamento repubblicano non lo hanno…” mentre la dizione usata nella certificazione “afferma il contrario, cioè la validità legale del titolo e ciò a fronte di una platea indistinta, la quale ben può fare affidamento sulla bontà della certificazione. Nè certamente è da confondersi la cognomizzazione con l’utilizzazione del titolo nobiliare, concetti affatto diversi e che riposano appunto sulla distinzione di principi costituzionali che governano la Repubblica”.
Come si vede si contesta (giustamente) la “validità legale” del titolo, non il titolo in sé.
La Cassazione riconferma quanto evidenziato dal Giudice di appello, con una ampia disamina della giurisprudenza in materia (giurisprudenza che peraltro non è univoca, perchè, se è vero che i principi riportati nella sentenza, peraltro riguardanti la cognomizzazione del predicato, sono maggioritari, una giurisprudenza di merito tutt’altro che secondaria pone principi assai diversi), ma aggiunge anche, in modo opportuno, che “ la possibilità che il titolo nobiliare possa essere apprezzato inter cives nell’ambito di libere finalità associative, lavorative, ludiche e simili, non implica minimamente un suo pur residuo uso legale…” il che è come dire che in questi casi vi è un uso lecito del titolo, ma non giuridicamente tutelato. Come diceva il Chiovenda circa 90 anni fa,
sia pur riferendosi ad altre ipotesi, quello che era un diritto (e cioè il titolo) adesso è un fatto ( o meglio un atto), peraltro lecito e utilizzabile in “libere finalità associative, lavorative, ludiche e simili”.
Insomma, la concessione di un titolo (da chi ha realmente la fons honorum) e l’uso dello stesso sono attività lecite, ammissibili e possibili, ma non sono riconosciute e tutelate dall’ordinamento giuridico.
Tutto ciò chiarito, e osservato che non vi è niente di nuovo sul piano giuridico e della
giurisprudenza, e prescindendo anche dalla rilevanza o meno della vicenda sotto il profilo
disciplinare del Notaio ricorrente ai sensi dell’ art. 28 legge notarile (che esula dalla nostra portata), va sottolineato però che si discute solo di certificazioni notarili di pareri pro veritate , vale a dire di atti che sono pur sempre assimilabili a perizie e o altro, vale a dire atti che non hanno rilevanza sul piano giurisdizionale. Insomma non si parla affatto di lodi arbitrali. L’argomento viene però introdotto dal ricorrente che osserva che “i pareri, le perizie e i conseguenti certificati sono stati utilizzati nell’ambito di altrettanti procedimenti arbitrali i cui lodi …. hanno ottenuto l’exequatur del Presidente del Tribunale” e ciò avrebbe comportato l’assenza di colpa del Notaio “che aveva prestato affidamento sulla legittimità di quanto operato dal Presidente del Tribunale nel riconoscere efficacia a quei lodi”, e quindi si sarebbe in presenza di un affidamento incolpevole dovuto alla condotta di terzi (error facti).
La Cassazione non condivide questo assunto e afferma che l’esecutorietà concessa al lodo arbitrale è inidonea a scriminare la condotta del Notaio:
in primo luogo perchè “il Notaio in quanto soggetto professionalmente qualificato e selezionato ai fini del compimento di attività giuridica ha il dovere di conoscere norme fondamentali come quelle costituzionali e la giurisprudenza formatasi al riguardo, sicchè tutt’altro che inevitabile è la non conoscenza che i titoli nobiliari non godano nell’ordinamento di tutela alcune e che dunque non ne sia certificabile alcun uso legale”. Il che è come dire che la certificazione rilasciata non diventa legittima per il solo fatto che è stata utilizzata in una procedura conclusasi con un lodo arbitrale che
ha ottenuto l’esecutorietà ex art. 825 co. primo c.p.c. ;
in secondo luogo perchè l’affidamento in generale non è compatibile con l’errore sull’esistenza del divieto (di certificazione), e non può derivare dal “comportamento di soggetti terzi (scilicet) diversi dal titolare della potestà sanzionatoria” ;
in terzo luogo perchè “il lodo arbitrale nazionale è soggetto ad un controllo di sola regolarità formale, che lascia impregiudicato ogni ipotetico profilo di nullità per contrarietà all’ordine pubblico”, tanto che la sua “eventuale emersione è affidata -non a caso e nei limiti di una nozione attenuata di ordine pubblico- alla sola impugnazione ai sensi dell’art. 829 terzo comma c.p.c.”
Il che, ai sensi del citato art. 829 terzo comma c.p.c., significa che le parti possono impugnare il lodo per violazione delle “regole di diritto relative al merito della controversia”, solo se l’impugnazione è “espressamente disposta dalle parti o dalla legge”, mentre le parti stesse possono impugnare il lodo “in ogni caso” per “contrarietà all’ordine pubblico” .
Come si vede la Cassazione prende in considerazione la problematica dei lodi arbitrali solo
incidentalmente, e solo per osservare che la loro esistenza non scrimina l’eventuale colpa di terzi soggetti giuridicamente qualificati e obbligati a tenere un certo comportamento, limitandosi poi a richiamare quella che è la loro disciplina dettata dal codice di procedura civile.
Concludendo: rivoluzione, stravolgimento, catastrofe o palingenesi ?
Niente di tutto ciò. Solo una ripetizione di principi già noti, peraltro condivisibili o meno, come capita spesso nel diritto.
Quindi niente fanfare di fronte ad una tempesta in un bicchier d’acqua…..

Redazione

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